Michele Scalini
Ai margini della galassia
Ai margini della galassia
Trama:
Il capitano Knox, uscito sconfitto da una lunga e sanguinosa guerra, torna al suo villaggio dopo aver vagabondato per alcuni mesi insieme alla sua amica Sinéad.
Qui si prende del tempo per riflettere sulla sua vita, fino a quando decide di intraprendere la carriera di cacciatore di taglie, nonostante covi dentro di sé un desiderio di libertà al quale darà vita dopo aver incontrato nuovamente la sua amica.
Insieme acquistano un’astronave e, dopo aver trovato un equipaggio, iniziano a girovagare per la galassia, svolgendo lavori illegali e rapine.
Tutto procede per il meglio, fino a quando vengono ingaggiati da un uomo, che chiede loro di cercare suo figlio, il quale vive su di un pianeta dove la terraformazione non dovrebbe aver funzionato.
Atterrati su quel pianeta, scoprono delle verità, negate dal governo, che condurranno il capitano Knox a ritornare ad essere il guerriero che era un tempo e a sfidare nuovamente il governo dell’Alleanza dei Pianeti Centrali.
Dettagli Prodotto:
Editore: Independently published
Data pubblicazione: 9 Agosto 2024
Lingua: Italiano
Copertina flessibile: 488 pagine
ISBN: 979-8335433075
Genere: Fantascienza, Avventura, Azione
Primo Capitolo
La guerra era finita da poco più di un anno ed io venni congedato con il grado di capitano ed iniziai la mia vita da normale cittadino.
Otto anni trascorsi in guerra avevano cancellato ogni tipo di umanità in me ed anche il mio nome, visto che in tutto quello schifo un nome serviva a poco; servivano solo la forza ed il coraggio di ricominciare a vivere la propria vita, come si faceva prima della guerra stessa.
Tutti mi chiamavano "il Capitano".
"Tutti" si fa per dire: diciamo quei pochi rimasti in vita che mi conoscevano e che ancora avevano la cattiva abitudine di rivolgermi la parola.
Dopo la guerra, la maggior parte dei soldati e dei civili sopravvissuti ritornò nelle proprie città di origine, dove, armati di speranza, coraggio e grande forza di volontà, unirono i propri sforzi per ricostruire quel vecchio pazzo mondo.
Altri rimasero nell’ambiente militare, poiché serviva qualcuno che tentasse, invano, di mantenere l’ordine nel caos che si creò dopo la guerra, soprattutto sui pianeti periferici.
Quindi si unirono alle forze dell’Alleanza per portare e ristabilire la civiltà; altri, invece, divennero semplici sceriffi nei villaggi che stavano riemergendo pian piano dalle macerie e dalla polvere.
I meno fortunati, o forse erano proprio loro i più fortunati, rimasero negli ospedali, mutilati, feriti gravemente o con il cervello totalmente distrutto dalla pazzia e dalle atrocità viste e vissute in guerra.
Ed infine c’erano gli uomini come me.
Quelli che non riuscivano a trovare la loro giusta collocazione in quel nuovo mondo che stava nascendo, quelli che rimasero attaccati ad un ideale che non c’era più, quelli che cercavano di sopravvivere, nonostante avessero perso tutto.
Dopo aver girovagato per qualche tempo senza meta e senza scopo, decisi di tornare al mio villaggio, dove ero nato e dove avevo vissuto fino allo scoppio della guerra.
Quello era uno squallido e puzzolente villaggio di pescatori, pescivendoli e alcolizzati, situato lungo la costa sud; un giusto ritrovo per i falliti e per chi volesse cancellare ogni traccia di sé.
La guerra mi aveva portato via tutto: la casa, la barca per andare a pesca, il lavoro; persino il criceto mi aveva abbandonato, lui e la sua stupida gabbietta con quella ruota che emetteva un fastidioso cigolio ad ogni rotazione.
Mi restavano solo i vestiti che indossavo, una sacca con alcuni ricambi e pochi oggetti personali.
Mia moglie mi lasciò quando decisi di arruolarmi nell’esercito, quando, insieme ad altri migliaia di idioti, partii per andare a combattere per un ideale di libertà e indipendenza che ormai neanche ricordavo più.
Da allora non avevo saputo più nulla di lei ed io non l’avevo più cercata.
Quando arrivai in quel posto dimenticato anche dai cartografi, incontrai un vecchio amico, l’unico che mi restava tra i civili, l’unico che mi restava in quel luogo, l’unico che mi mise un tetto sopra la testa e mi diede un letto in cui dormire.
Mi ospitò nella soffitta della sua casa, in una stanza sporca, umida e con spifferi che passavano da ogni fessura.
Era così deprimente che anche un topo di fogna avrebbe provato ribrezzo nel vederla.
Ma a me andava più che bene.
Avevo un letto su cui dormire, un tetto sopra la testa e, dall’alto della loro casa, potevo vedere il mare.
Quel mare era una pozza d’acqua salata e puzzolente, popolato di pesci in seguito a un lungo processo di terraformazione avvenuto diversi anni prima, pieno di escrementi e con centinaia di cadaveri sui suoi fondali.
Ormai era più un cimitero che un mare in cui pescare.
In quel periodo avevo bisogno di riflettere, e quello schifo, lontano da tutto e da tutti, mi sarebbe andato più che bene.
In fin dei conti, era sempre meglio dei posti in cui avevo dormito durante la guerra, quando riuscivo a riposare tra un’esplosione e l’altra.
Il tizio era sposato da qualche anno con una donna non troppo alta, magrolina, coi capelli sempre sporchi e unti, la sigaretta spenta in bocca ed un grembiule sporco e mal ridotto indosso.
E, come ciliegina sulla torta, aveva anche un alito così pesante da far dimenticare il puzzo di pesce marcio che c’era nell’aria.
Comunque, con lei avevo un buon rapporto.
Quella donna era sempre gentile e rispettosa nei miei confronti e mi accolse nella sua casa senza fare storie.
Al mio arrivo non disse niente, mostrò un’insolita timidezza nei miei confronti, ma dopo un paio di giorni iniziò a mostrare interesse nei miei riguardi; aveva un modo molto femminile di salutarmi quando uscivo e quando entravo nella loro casa.
«Hey tesoro… cambia la serratura, il relitto sta uscendo» diceva a suo marito quando uscivo di casa.
«Bene! Per qualche ora non sentiremo la tua puzza!» diceva invece nei giorni migliori.
«Torna nella tua fogna! È lì che devi stare!» erano le parole con cui accompagnava le altre.
Anche quando rientravo in casa, era solita accogliermi mostrando tutta la sua "amicizia".
«Quel pidocchio è tornato! Questa giornata di merda non è ancora finita!» diceva vedendomi.
«Non pensavo che saresti rientrato così tardi! Puoi mangiare gli avanzi della cena… peccato che non ce ne sono!»
«Cazzo… ma nessuno ti ha messo una pallottola in fronte per porre fine alla tua schifosa ed inutile vita?»
Insomma, quella donna mi adorava.
Il marito non interveniva mai, la lasciava parlare.
In fondo era sempre stato un tipo di poche parole, e quando seppi che si era sposato, pensai che una qualche sgualdrina, stanca del marciapiede, lo avesse incastrato solo perché non era più merce valida da tenere sul mercato.
Lui si limitava a salutarmi mentre sedeva su di una vecchia poltrona tutta malandata, con le mutande sporche ed una canottiera di cui ormai restava solo un ricordo, per via dei tanti buchi che aveva.
Se ne stava lì la maggior parte del tempo a guardare fuori dalla finestra e a bere birra, mentre la vita gli sfuggiva dalle mani.
Una mattina uscii da quel porcile, con il sole già alto da un pezzo.
Arrivato alla porta e pronto per uscire, spuntò fuori dal nulla la moglie del mio amico, che si presentò per salutarmi con la sua solita gentilezza.
«Già che esci! Buttati a mare e vedi di affogare!» mi salutò, facendomi capire che le sarei mancato durante la mia assenza.
Me ne andai in strada, dirigendomi verso il pontile.
Nell’aria c’era la solita puzza di pesce marcio che non voleva proprio abbandonare quel posto.
Per la strada, delle donne entravano ed uscivano da alcuni negozi.
Il mercato del pesce era in piena attività, ma mancavano i clienti; un tempo quel mercato riforniva le grandi città lontane dalla costa, oggi riforniva solo il villaggio.
In pochi venivano a prendere il pesce da quelle parti, poiché c’erano zone migliori altrove.
La vita nel villaggio, comunque, si stava riprendendo giorno dopo giorno.
Mentre osservavo quello squallido scenario, udii dei colpi di pistola provenire dalla strada.
Di fronte al bar della piazza, due idioti avevano deciso di passare la giornata impegnandosi in una stupida sparatoria.
Uno dei due venne ferito alla gamba, perse l’equilibrio e cadde a terra; urlava per il dolore e teneva le mani sulla ferita, che sanguinava copiosamente.
Il secondo idiota, dall’altra parte della strada, faceva gesti con le mani, sventolava la sua pistola in aria e sparava dei colpi, mantenendo lo sguardo fisso su di lui.
«Rialzati e fatti sotto! Lurido verme!» gridava.
Incuriosito, mi avvicinai al tizio ferito; lo guardai mentre nuotava in quella pozza di sangue e si dimenava per il dolore.
Piangeva e urlava a terra, di fronte a me.
A pochi centimetri dai miei piedi era caduta la sua pistola, una semiautomatica con la canna color argento e l’impugnatura in gomma dura e nera, una di quelle date in dotazione ai soldati dell’indipendenza durante la guerra.
La fissai per alcuni istanti, quando decisi di chinarmi sulla strada per raccoglierla.
Guardai quella pistola che tenevo nella mia mano destra e, stringendola forte, mi resi conto che erano anni che non ne impugnavo una; non la prendevo in mano dalla fine della guerra.
«Fantastico! Abbiamo un buon samaritano! Vuoi forse salvare l’onore di quel pezzente e sfidarmi in un duello?» urlò l’altro uomo, puntandomi contro la sua pistola.
Non avevo alcuna intenzione di fare stupidi duelli con la pistola.
Non ero lì per quello.
Ma l’idiota continuava ad urlare e a sparare dietro di me.
Notai subito che aveva una pessima mira e che il colpo che aveva ferito il povero diavolo a terra era stato probabilmente un colpo di fortuna, o forse, più probabilmente, un rimbalzo.
Comunque, l’idiota mi fece perdere la pazienza, soprattutto perché non avevo mai sopportato le persone che urlavano.
Puntai la pistola ed iniziai a camminare verso di lui, con passo lento e senza distogliere lo sguardo.
«Hey tu!» tentò di dire qualcosa, ma, detto tra noi, non ero così curioso di sentire cosa avesse da dire.
L’ultima cosa che si poté udire in quella piazza fu il rumore del colpo di pistola che scagliai contro quell’uomo.
Dopo lo sparo, scese immediatamente il silenzio tutto attorno.
Alcune donne, che erano già lì a guardare quella pietosa scenata, rimasero immobili ad osservare il tizio che cadeva a terra, lasciando scivolare via la sua pistola ormai scarica.
Mentre pronunciava le sue ultime parole, sparai due colpi che lo centrarono prima alla gola e poi dritto in testa.
L’idiota era ormai un idiota morto e la pace era stata ristabilita in quel posto.
Durante la guerra ero anche addetto a missioni di infiltrazione.
Mi infiltravo in territorio nemico per sabotaggi o per rubare informazioni; ero solito uccidere il nemico assalendolo alle spalle, uccidendolo piazzandogli un coltello alla gola o con le mani, spezzandogli il collo.
Ma quando avevo il nemico di fronte, sparavo sempre due colpi: il primo alla gola e il secondo alla fronte.
Perché alla gola?
Semplice, amico mio: colpendolo alla gola, non avrebbe avuto voce per urlare.
Comunque, rimasi qualche istante a fissare quel cadavere.
Notai con soddisfazione che i colpi erano stati precisi e ben piazzati; non avevo perso la mano, nonostante il tempo e il troppo alcol con cui mi ero distrutto dopo la guerra.
Ero ancora un assassino figlio di puttana.
In quell’istante ebbi un’illuminazione: sapevo cosa avrei dovuto fare per vivere.
Diventare un cacciatore di taglie.
Poteva essere una buona alternativa per fare soldi finché non avrei trovato qualcosa di meglio.
Avrebbe dato un senso al mio girovagare senza scopo nel nuovo mondo che stava nascendo e che mi piaceva sempre meno.
Quindi inserii la sicura alla pistola e la misi nella cintura dei pantaloni, dietro la schiena, quando mi voltai per incamminarmi verso casa.
«Dove vai! Brutto bastardo! Quella è la mia pistola!» Il tizio ferito aveva ancora la forza di parlare, tra un lamento e l’altro.
«ERA… la tua pistola!» dissi senza voltarmi mentre mi allontanavo da lui con passo deciso.
Arrivato a casa, trovai la moglie del mio amico pronto ad accogliermi con il suo benvenuto.
«Merda… vuoi dirmi che quegli spari non erano per te? Non ne va proprio bene una oggi!» mi accolse con il suo solito modo di fare che iniziava a seccarmi.
Non pensavo di meritare un trattamento simile; avevo già i miei problemi con cui combattevo ogni giorno e non ne avevo bisogno di altri.
Così, andai in cucina, dove lei passava tutto il tempo.
Mi avvicinai alla donna e le misi una mano sulla spalla, mentre con l’altra presi la pistola dalla cintura e, senza togliere la sicura, gliela piazzai sotto al mento.
La guardai dritto negli occhi, trattenendo il respiro per evitare di assaggiare il suo schifoso alito.
«Me ne vado» le dissi, guardandola dritto negli occhi.
La donna non disse nulla alle mie parole; rimase immobile con lo sguardo rivolto verso di me, dove intravedevo un briciolo di paura.
Lasciai andare quella donna e andai in soffitta, dove presi le mie cose.
Diedi un ultimo sguardo in giro, a quel letamaio che mi aveva ospitato nelle ultime settimane, per poi scendere le scale.
Salutai il mio amico, che incontrai mentre lui stava entrando in casa, e me ne andai da quel buco.
Me ne andai per sempre da quella fogna, diretto alla città più vicina, dove avrei iniziato la mia nuova, ma pur sempre temporanea, vita.
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