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Primo Capitolo
Città pericolosa
Alcuni clienti erano usciti da pochi minuti, dopo aver fatto i loro acquisti, ed io ero rimasta completamente sola all’interno del mio negozio.
Vedendo che nessun altro cliente si stava avvicinando alla porta e vedendo l’ora ormai prossima a quella di chiusura, pensai che avrei potuto chiudere in anticipo per tornarmene a casa.
Mi avvicinai quindi alla porta in vetro e voltai il cartello per indicare che il negozio era chiuso.
Mentre mi trovavo lì, di fronte a quella vetrata, volsi lo sguardo verso la città che si estendeva oltre gli edifici posti sull’altro lato della strada.
Osservai quei grattacieli, che venivano colorati di rosa dal sole prossimo al tramonto, mentre alcuni elicotteri volavano tra quelle cime, portando al loro interno persone potenti e dannatamente ricche.
Mentre quegli edifici in lontananza risplendevano grazie alla luce del sole ed ospitavano persone ricche e potenti, intorno ad essi cresceva la città di Megalopolis, dove criminalità e povertà regnavano sovrane.
Abbassai lo sguardo per rivolgerlo verso gli edifici che si trovavano di fronte al mio negozio, dove trovai, sui marciapiedi, alcune persone che se ne andavano per i fatti loro.
Spostai lo sguardo leggermente sulla sinistra, dove trovai un’automobile nera parcheggiata di fianco al marciapiede, con intorno alcuni tizi appartenenti ad una delle tante bande di delinquenti che circolavano in quel quartiere.
Osservai quella gente con disprezzo e con rabbia, mentre la mente, senza il mio controllo, si rivolgeva verso il quartiere dove ero nata e cresciuta.
Quello era uno dei quartieri più poveri e malfamati della città.
Si trovava nella periferia ovest di una delle città più popolose del pianeta.
La città, infatti, contava una popolazione di circa trenta milioni di abitanti, almeno in base al conteggio fatto sui cittadini denunciati all’anagrafe, ma probabilmente erano molti di più.
Di quei trenta milioni, un buon cinquanta percento viveva in povertà, molti dei quali in povertà assoluta.
Alcune di quelle persone più povere, senza un lavoro e senza un pasto quotidiano, erano costrette a vivere in strada o negli edifici abbandonati.
Ma alcuni di loro, quelli più disperati e senza alcuna intenzione di arrendersi, entravano a far parte di bande criminali.
Quest’ultimo era l’unico modo per quella gente di riempire la pancia tutti i giorni e avere qualche soldo in tasca.
Un cinque percento della popolazione della città faceva parte delle forze dell’ordine, le quali difficilmente si avventuravano in periferia, dove non venivano visti di buon occhio, e rimanevano nelle zone centrali a proteggere le persone più “fortunate” di noi.
Un quaranta percento erano persone che vivevano nelle zone limitrofe al centro, dove si elevavano possenti quei grattacieli, e lavoravano per quel cinque percento di persone che controllavano l’intera città.
Mentre la gente viveva come meglio poteva, politici corrotti, imprenditori senza scrupoli e mafiosi dominavano l’intera città e vivevano nel lusso più sfrenato.
Quella gente dedicava la propria esistenza solamente ad accrescere il proprio potere e aumentare le proprie ricchezze, mentre il resto della città veniva abbandonato al degrado più assoluto.
In mezzo a quel mondo dominato dalla corruzione, dalla criminalità e dalla violenza, la mia famiglia cercava di sopravvivere meglio che poteva, senza lasciarsi mettere i piedi sopra la testa e senza abbandonarsi a quel degrado che la circondava.
Quando ero una bambina e vivevamo in quella periferia, mio padre gestiva un piccolo negozio di giocattoli, dove lavorava insieme a mia madre, prima che lei si ammalasse.
Grazie a quel negozio, i miei genitori riuscivano a guadagnare lo stretto necessario, che ci permetteva di vivere meglio di quelle famiglie che si erano lasciate sottomettere dalle bande criminali che abbondavano nel quartiere in cui vivevamo.
Mio padre si teneva lontano da quella criminalità e, chiaramente, incolpava i politici per quella situazione, dicendo che non si preoccupavano a sufficienza della città e che dipendevano troppo da quelle famiglie di mafiosi che compravano il loro silenzio.
Mio padre incolpava quei politici di tutto.
Molto spesso lo sentivo dire che quei politici avrebbero dovuto ripulire la città, in modo da permettere a tutti di vivere onestamente senza uccidersi o derubarsi a vicenda.
A volte diceva che il mondo doveva essere per i giusti e non per i malvagi.
Lui soffriva molto per quel degrado in cui era caduta la città in cui era nato e in cui aveva vissuto per tutta la vita.
Ma, purtroppo per lui, i suoi pensieri, per quanto giusti, erano fin troppo utopistici.
Giusto pensare che un politico avrebbe dovuto compiere azioni positive nei confronti dei suoi elettori, ma i soldi che arrivavano nelle loro tasche contavano più di quelle persone che credevano ai loro slogan elettorali.
Quando sentivo quell’uomo parlare di quei politici e affrontare quei discorsi, nonostante fossi solo una ragazzina, gli rispondevo dicendo che prima o poi qualcuno si sarebbe vendicato per tutto quel male che stavano vivendo le persone come noi.
«No, figlia mia, non devi mai commettere l’errore di confondere il bisogno di giustizia con la sete di vendetta» era solito dirmi in quei momenti dopo aver appoggiato la sua mano sulla mia spalla.
Naturalmente, quelle parole erano sufficienti per zittirmi, poiché quello che diceva mio padre era giusto, anche se lo compresi a pieno solo dopo essere cresciuta.
Quella città non aveva bisogno di qualcuno che vendicasse i tanti torti subiti, ma aveva un gran bisogno di giustizia, cosa che era venuta a mancare negli ultimi decenni.
Mio padre morì una sera, mentre stava rincasando, quando avevo compiuto da poco dodici anni.
Dopo aver chiuso il negozio e mentre stava tornando a casa con un sacchetto di carta in mano, il quale conteneva la cena che aveva acquistato per me e mia madre, sulla strada incontrò dei delinquenti che tentarono di rapinarlo.
Lui cercò di resistere a quei delinquenti come meglio poté, ignorandoli completamente e cercando di proseguire per la sua strada.
Ma, purtroppo per lui, uno di quegli uomini, spazientito dal suo comportamento e intenzionato a mettere mano al suo portafogli, gli infilzò un coltello nel cuore uccidendolo.
Mio padre, povero uomo, venne ucciso in un vicolo maleodorante e sporco, e quella gente prese con sé i pochi soldi che aveva, ovvero poco meno di quindici dollari.
E quella era solo una delle tante realtà che esistevano nel quartiere in cui ero cresciuta.
La vita di un padre di famiglia, il quale si guadagnava da vivere con il suo onesto lavoro, valeva circa quindici dollari!
Comunque, al suo funerale mi avvicinai alla bara chiusa e la guardai, cercando di trattenere le lacrime.
«Mi dispiace, papà… ma ti sbagliavi… purtroppo non serve giustizia… serve vendetta» borbottai con voce tremolante, prima di tornare da mia madre.
Visto il degrado in cui era caduto il quartiere dove ero nata e a seguito della morte di mio padre, mia madre non ci pensò troppo e ci trasferimmo in un altro quartiere che, in apparenza, sembrava meno malfamato di quello abbandonato.
Ma, come avremmo dovuto aspettarci, mia madre venne ingannata dalle apparenze.
In effetti, anche quel quartiere si rivelò essere in mano a delinquenti e a bande di criminali.
Rassegnate all’idea di vivere in quell’eterno incubo, restammo in quel quartiere prestando attenzione ad evitare strade poco trafficate e a non uscire di notte, quando i malviventi si impossessavano di tutto.
Abbandonai quei ricordi per tornare dietro al bancone e avvicinarmi al registratore di cassa in modo da prendere l’incasso della giornata.
«Appena ventisette dollari… pazienza… andrà meglio domani» borbottai dopo aver contato le banconote presenti nel cassetto del registratore di cassa, cercando di non abbandonare quel minimo di positività che mi aiutava a non arrendermi.
Infilai quelle poche banconote in una tasca che avevo cucito all’interno del mio stivaletto destro e, dopo aver preso la borsa, lasciai il negozio per dirigermi verso casa.
Lungo il marciapiede trovai svariate persone che andavano per la loro strada e i soliti malviventi che si aggiravano per il quartiere in cerca di guai.
Cercando di non curarmi troppo di quella gente, camminai sul marciapiede mantenendo lo sguardo rivolto verso il terreno sottostante.
Naturalmente, fui costretta a subire gli sguardi di quei malviventi, per non parlare poi dei loro commenti che venivano rivolti verso di me, colpevole solamente di essere una donna sola che attraversava quella che consideravano la loro strada.
Andai avanti cercando di non preoccuparmi troppo di loro fino ad arrivare al portone della mia casa, dove mi fermai per guardarmi intorno e assicurarmi che quella gente non si fosse avvicinata troppo.
Con la via sgombra, infilai la chiave nella serratura della porta e scomparii oltre di essa per accedere alla mia casa, dove mia madre mi stava aspettando per mangiare qualcosa insieme e si trovava in compagnia di Amelia, la donna che si prendeva cura di lei durante la mia assenza.
Trovai quella donna che mi aveva messa al mondo seduta sulla sua sedia a rotelle, con lo sguardo rivolto verso la finestra che offriva la vista sul quartiere in cui vivevamo.
Rimasi con lo sguardo rivolto verso mia madre, la quale non si era ancora accorta che ero rincasata, guardandola con ammirazione e, allo stesso tempo, con dispiacere a causa della malattia che l’aveva colta negli ultimi anni.
Mi avvicinai a mia madre e, dopo averle dato un bacio sulla guancia, afferrai le maniglie della carrozzina per spingerla in sala da pranzo, dove avremmo consumato il pasto che avrei preparato in seguito, mentre Amelia si preparava per tornare a casa sua.