Michele Scalini
I.S.V. Aetheria
I.S.V. Aetheria
Trama:
Un comandante. Un’astronave alla deriva. Un segreto sepolto nello spazio profondo.
Il comandante Ayla Kepler si risveglia in un alloggio capovolto.
Le luci d’emergenza illuminano l’abisso del silenzio.
L’intera astronave Aetheria è priva di vita.
I motori sono esplosi.
L’atmosfera si sta dissipando.
L’equipaggio? Sparito.
Ayla è sola. Oppure no?
Armata solo della sua lucidità e del supporto del computer di bordo, Ayla cerca disperatamente di riparare la nave… finché, in un settore gelido e abbandonato, scorge un’ombra.
Il suo nome è Mara Solis, e ciò che rivela è più inquietante della solitudine stessa.
Chi, o cosa, ha davvero causato l’incidente?
E cosa si nasconde nei sistemi oscuri dell’Aetheria?
"I.S.V. Aetheria" è un romanzo di fantascienza psicologica e claustrofobica, con una protagonista determinata, un ritmo teso e un mistero che si infittisce ad ogni pagina.
Dettagli Prodotto:
Editore: Independently published
Data pubblicazione: 20 Agosto 2025
Lingua: Italiano
Copertina flessibile: 406 pagine
ISBN: 979-8298947404
Genere: Thriller psicologico, Fantascienza
Primo Capitolo
Mi arruolai nella Federazione Galattica poco dopo aver compiuto i sedici anni, con il pieno appoggio di mio padre e il sostegno di mia madre, sebbene lei avrebbe preferito che intraprendessi una carriera in campo scientifico.
Ma, purtroppo per lei, il richiamo del viaggio nello spazio, attraverso le immensità del cosmo, mi affascinava ben più che l’idea di limitarmi ad osservare quelle meraviglie tramite un telescopio orbitante.
Inoltre, mio padre era il comandante di un’astronave interstellare e, quando gli era possibile, mi portava a bordo affinché potessi ammirare la magnificenza della tecnologia, come se volesse tentarmi ad ogni costo a seguire le sue stesse orme.
Tenendomi per mano, per evitare che mi smarrissi, mi guidava all’interno della sua astronave, conducendomi attraverso corridoi di metallo lucente, animati dal via vai del personale che, vedendolo passare, lo salutava mettendosi sugli attenti.
Eppure, la sua nave non era militare, bensì dedicata al trasporto di merci tra le varie colonie del settore spaziale in cui ci trovavamo.
Nonostante ciò, quegli uomini e quelle donne gli tributavano ugualmente quel segno di rispetto, riconoscendo in lui l’autorità conferitagli dal suo grado.
Negli occhi di quella gente scorgevo il rispetto e l’ammirazione rivolti all’uomo che mi stava accompagnando, colui che mi aveva messo al mondo e che, in quel momento, mi stava permettendo di accedere al luogo del suo lavoro.
E mentre avanzavo lungo quei corridoi interminabili, resi vivi dal continuo andirivieni delle persone che li percorrevano, mi lasciavo affascinare da qualsiasi dettaglio rientrasse nel raggio d’azione del mio campo visivo.
Ma ciò che più di ogni altra cosa catturava la mia immaginazione, e che più mi consentiva di viaggiare con la fantasia, era il ponte di comando.
Un salone vasto, immenso agli occhi di una bambina, dove si allineavano le plance di comando con le loro spie luminose e i monitor che vegliavano sul lavoro di ciascun addetto, e da cui un’ampia vetrata si apriva sul cosmo, rivelando al contempo una porzione dello scafo della nave.
Al centro del salone, là dove spesso lasciavo che lo sguardo si perdesse tra una postazione e l’altra, si ergeva la poltrona del comandante, il seggio di mio padre, collocato su una pedana rialzata a rappresentare l’autorità di chi vi sedeva.
Quella poltrona, con i comandi collocati sui braccioli e piccoli monitor che vi spuntavano sopra, ai miei occhi appariva come il trono di un re.
Il re dell’astronave: colui che la governava impartendo ordini e dispensando consigli alla sua ciurma, guidandola con fermezza attraverso l’immensità del vuoto cosmico.
Mio padre, naturalmente, mi permetteva di sedere su quella poltrona, mentre il personale addetto al controllo dei sistemi mi lanciava occhiate divertite.
Ed io, con le mani poggiate sui braccioli, mi sentivo parte di quel mondo: muovevo lo sguardo tra le varie postazioni che emergevano dal pavimento metallico e l’ampia vetrata dalla quale potevo ammirare il cielo scuro, solcato di tanto in tanto da navette che passavano sopra lo scafo.
«Se ti impegnerai… un giorno… una nave come questa sarà tua… sarà sotto il tuo comando» era solito dirmi mio padre, mentre mi lasciava il privilegio di occupare il suo posto.
Ed io accoglievo quelle parole come un invito a seguire i suoi passi, promettendogli con lo sguardo che mi sarei impegnata a qualsiasi costo pur di trasformare il sogno di una bambina e il desiderio di un padre in una realtà tangibile.
*****
Quando riaprii gli occhi, mi sentii confusa, con la vista annebbiata e le orecchie martellate da un ronzio incessante.
Mi resi conto di essere distesa sul pavimento, con qualcosa che gravava sulle mie gambe, impedendomi di muovermi come avrei voluto.
Provai a muovere lo sguardo intorno, ma non riuscii a mettere a fuoco l’ambiente che mi circondava: la mia vista, ostinata, non sembrava avere alcuna intenzione di tornare normale, almeno in quel momento.
Attraverso la nebbia visiva che offuscava il mondo, scorsi una luce rossa lampeggiante, il segnale d’emergenza, che pulsava a intermittenza, mentre le sirene urlavano nelle mie orecchie, cercando di sovrastare il ronzio già presente.
Portai una mano agli occhi e li strofinai con forza, nel tentativo di rischiarare la vista, desiderosa di capire cosa stesse accadendo e cosa stesse immobilizzando le mie gambe che, per mia fortuna, sentivo ancora sotto di me.
«Cosa diavolo è successo?» borbottai, dopo aver scosso il capo con forza, facendo ondeggiare i capelli che ricaddero sul mio viso, come se volessero offrirmi un gesto involontario di conforto.
Il lampeggiante rosso squarciava a intermittenza l’oscurità del mio alloggio, mentre le sirene continuavano a ululare all’esterno, nei corridoi che si diramavano verso il resto dell’astronave.
Provai a muovere le gambe, ma non ci riuscii del tutto, a causa di quel qualcosa le teneva bloccate, impedendomi di liberarmi come avrei voluto.
Appoggiai le mani sul pavimento e, con uno sforzo incerto, cercai di sollevarmi quel tanto che bastava per voltarmi e capire cosa mi immobilizzasse, mentre nelle mie orecchie, oltre al lacerante grido delle sirene, iniziavano a insinuarsi suoni anomali.
Nonostante non ne fossi completamente sicura, quel rumore mi parve simile al lamento del metallo che si contorceva, piegato da una forza misteriosa e per me ancora ignota.
«Una cosa alla volta» rimproverai a me stessa, prima di voltarmi verso le gambe, che scoprii essere intrappolate sotto l’armadietto di metallo che, di norma, avrebbe dovuto rimanere fissato alla parete.
Senza lasciarmi scoraggiare dal frastuono e dalla situazione che mi circondava, allungai una mano per afferrare l’armadietto, cercando di sollevarlo quel tanto che mi permettesse di liberare le gambe.
Purtroppo, si rivelò molto più pesante del previsto, e la mia posizione non aiutava: distesa con la pancia a contatto del pavimento, avevo un margine di forza ridotto, troppo poco per ottenere il risultato sperato.
Mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa da usare come leva, finché non scorsi una sedia rovesciata poco distante da me.
La fissai per alcuni istanti, calcolando la distanza, e poi allungai il braccio nel tentativo di raggiungerla, senza però riuscire a sfiorarla nemmeno con le dita.
Sbuffai, scuotendo il capo con frustrazione, ma senza la minima intenzione di arrendermi.
Mi appoggiai con il petto al pavimento, mi piegai di lato verso la sedia e, con determinazione, tornai a tenderle la mano.
A fatica, riuscii a raggiungere la gamba della sedia appoggiata al pavimento e, dopo averla afferrata con tutta la forza che avevo, la trascinai a me per poi spingerla verso l’armadietto, incastrando lo schienale sotto di esso.
Facendo leva su un braccio, mi sollevai leggermente dal pavimento, mentre con l’altra mano spingevo con ogni fibra del mio corpo per sfruttare la sedia come punto d’appoggio e sollevare quel peso schiacciante, nella speranza di liberare le gambe.
L’impresa, complicata dalla mia posizione, si rivelò più ardua del previsto, e dovetti ripetere lo sforzo più volte prima di riuscire a sollevare l’ostruzione quel tanto che bastava per strappare via le gambe dalla sua morsa.
Strisciai sul pavimento per allontanarmi dall’armadietto e, una volta al sicuro, mi voltai, appoggiando la schiena al metallo freddo, distendendo le braccia lungo i fianchi, cercando ossigeno in respiri profondi e affannosi.
Serrando appena le palpebre, lasciai che il mondo intorno a me si sfocasse: le sirene continuavano a ululare, il lampeggiante tingeva a tratti la parete di rosso, e sullo sfondo quei rumori metallici, sinistri e deformi, non smettevano di farsi sentire.
«In piedi, soldato» mi ordinai, prima di sollevare il busto e abbassare lo sguardo sulle gambe nude per verificarne le condizioni.
A parte qualche livido e un paio di graffi superficiali, non notai nulla di preoccupante e, soprattutto, riuscii a muoverle senza grosse difficoltà.
Lasciai che lo sguardo corresse attraverso l’alloggio: la stanza sembrava devastata dal passaggio di un tornado, con oggetti e vestiti sparpagliati ovunque sul pavimento, e mi ritrovai a chiedermi cosa potesse essere accaduto.
Rimessami in piedi, mi affrettai a raccogliere un paio di pantaloni e i miei scarponcini, che indossai con gesti rapidi e determinati, pronta ad uscire per raggiungere il ponte di comando.
Seduta sul bordo del letto, mentre allacciavo gli scarponcini, sollevai lo sguardo verso la porta chiusa, da cui filtrava il suono incessante delle sirene; sopra di essa, la lampada di emergenza pulsava nel suo inquietante lampeggìo rosso.
Al suo fianco si trovava l’interfono, il mezzo con cui avrei potuto contattare il ponte di comando per chiedere chiarimenti agli ufficiali di turno e scoprire finalmente cosa stesse accadendo.
Decisa a contattare il ponte di comando per ottenere chiarimenti su quanto stesse accadendo, mi alzai in piedi e mi diressi verso la porta.
Scavalcai l’armadietto caduto e raggiunsi l’interfono, premendo con decisione il pulsante che avrebbe avviato la comunicazione.
«Qui il comandante, fate rapporto! Cosa sta succedendo sulla mia nave? Passo!» scandii all’altoparlante.
Rilasciai il pulsante e rimasi immobile, con la mano poggiata alla parete e lo sguardo fisso sul dispositivo, in attesa che qualcuno rispondesse al mio appello, mentre le sirene continuavano a straziarmi le orecchie.
Trascorsero diversi secondi, ma dall’altoparlante non giunse alcuna voce.
Infastidita, premetti nuovamente il pulsante per ripetere la richiesta, ma nemmeno al secondo tentativo ottenni risposta.
La situazione cominciava a farsi inquietante, poiché sul ponte di comando avrebbero dovuto trovarsi almeno cinque persone, e nessuna di loro stava rispondendo.
Era ormai chiaro che avrei dovuto andare di persona a controllare la situazione, visto che nessuno sembrava intenzionato a rispondere ai miei richiami.
Mi posizionai davanti alla porta e allungai il braccio verso il congegno che avrebbe dovuto aprirla, permettendomi di uscire dal mio alloggio.
La porta si scostò appena di qualche centimetro, lasciandomi intravedere il corridoio, illuminato a intermittenza dalle luci di emergenza, e facendo giungere alle mie orecchie il suono delle sirene con ancor maggiore violenza.
Mi accostai alla fessura stretta tra la porta e la parete, nel tentativo di scorgere qualcosa, ma la visuale ridotta e la scarsa illuminazione non mi permisero di distinguere quasi nulla.
Afferrai allora il bordo della porta con entrambe le mani e, divaricando le gambe per darmi maggiore spinta, provai a tirarla verso di me.
«Andiamo… apriti!» esclamai, tendendo i muscoli e stringendo i denti, mentre la porta si muoveva a fatica di pochi centimetri alla volta, come se qualcosa ne ostacolasse ostinatamente l’apertura.
Quando la porta fu abbastanza aperta, appoggiai un piede contro la parete, nel punto in cui sarebbe dovuta rientrare alla chiusura, e spinsi con forza, mantenendo ben salda la presa, finché lo spazio non fu sufficiente a permettermi di uscire.
Infilai un braccio nella fessura e, con cautela, introdussi il resto del corpo, ritrovandomi così nel corridoio dalle pareti metalliche, desolatamente vuoto.
Mi voltai alle spalle e constatai lo stesso silenzio di presenze: nessuno nei paraggi, soltanto le plafoniere che lampeggiavano a intermittenza e il lamento delle sirene che echeggiava lungo le pareti, insinuandosi con violenza nelle mie orecchie.
Non riuscivo a comprendere cosa stesse accadendo, né dove fosse finito il resto dell’equipaggio che, in condizioni normali, avrei dovuto incontrare in quel corridoio, principale via di transito tra il settore degli alloggi e il resto della nave.
E intanto, insieme al pianto incessante delle sirene, continuavano a farsi strada quegli inquietanti rumori metallici, la cui origine rimaneva per me misteriosa, come se la nave stessa stesse gemendo sotto il peso di una minaccia invisibile.
Rivolsi lo sguardo verso il lato del corridoio che conduceva al ponte di comando, osservando quello spazio vuoto mentre una serie di ipotesi mi attraversava la mente.
Scelsi però di non dare peso a quelle congetture, imponendomi di restare lucida e concentrata sugli eventi in corso.
Dovevo raggiungere il ponte di comando, controllare le strumentazioni, magari trovare qualcuno con cui parlare, prima di permettere alla mia mente di elaborare conclusioni affrettate.
Non ero mai stata una persona incline a giudizi rapidi: prima di ogni decisione, esigevo informazioni sufficienti per condurre un’analisi accurata della situazione.
Animata dal bisogno di comprendere cosa stesse accadendo, mossi i miei passi lungo il corridoio in direzione del ponte di comando, tenendo una mano appoggiata alla parete e lasciando che le dita la sfiorassero appena, come a cercare un punto di contatto stabile in quel vuoto incerto.
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