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Primo Capitolo
Il mio paradiso
Mio padre, quando ero solo un ragazzo, era solito dirmi che niente al mondo era preferibile alla caccia.
E aveva ragione.
Anche dal mio modesto punto di vista, non c’era niente di meglio.
Raggiungere il luogo dell’ultimo avvistamento della preda, seguire le sue tracce, assaporare l’odore della paura, sentire i rumori provocati nel tentativo di nascondersi al mio arrivo.
Adoravo quei momenti e non li avrei cambiati con nient’altro al mondo.
Perché niente era più eccitante della caccia.
Nemmeno la cattura della preda riusciva a donarmi quelle sensazioni che consideravo uniche nel loro genere.
E quel giorno mi attendeva una nuova caccia: una preda che aveva fatto incazzare il mio capo ed era andata a nascondersi nella foresta oltre il fiume Stige.
In genere non ero solito avventurarmi da quelle parti, soprattutto nei pressi di quel dannato fiume, frequentato perlopiù da anime perdute che ne percorrevano le acque.
Inoltre, l’odore che emanava era nauseante, insopportabile.
Ma, purtroppo, non avevo alternative.
Le circostanze mi obbligavano ad attraversarlo, se volevo raggiungere quel pezzo di merda e ammazzarlo, come richiesto dal grande capo.
Secondo le informazioni ricevute, la preda se ne stava ben nascosta nella Foresta dei Suicidi, dove finivano le anime di quei poveri bastardi che si erano tolti la vita, proprio come suggeriva il nome del posto.
Poco preoccupato, e ansioso di godermi la caccia che mi aspettava, appoggiai le mani sulle impugnature delle pistole, che riposavano tranquille nelle fondine, e mi incamminai verso il pontile, dove mi attendeva un’imbarcazione pronta a condurmi a destinazione.
Lasciai la mia baracca e mi incamminai attraverso il villaggio, dove le anime dei dannati cercavano redenzione nel tentativo di guadagnarsi il paradiso.
Molto spesso, quando le osservavo, mi chiedevo perché si dessero tanto da fare per andarci.
Lassù li avrebbero accolti solo angeli che suonavano le loro arpe del cazzo tutto il giorno, oppure si divertivano a spaccarti i timpani con le loro stupide trombe.
Inoltre, da quelle parti erano tutti dannatamente gentili, attenti a ogni parola, con toni di voce soavi e quegli orribili sorrisi dietro cui, ne ero certo, si celava qualcosa di losco.
A dirla tutta, non avevo mai avuto il minimo desiderio di finire lassù.
Anche perché non ti permettevano di indossare pistole e io non mi separavo mai dalle mie armi.
E, come se non bastasse a rendere squallido il paradiso, nessuno offriva taglie, non esisteva alcun tipo di caccia e, sicuramente, nessuno entrava mai in conflitto con gli altri, poiché non c’erano torti da vendicare o cazzate del genere.
Insomma, il paradiso, dal mio umile punto di vista, non era altro che un’infinita rottura di palle.
Niente a che vedere con il mondo qua sotto: l’inferno.
Qui potevi indossare le armi, potevi ammazzare i dannati, potevi frequentare saloon dove trovavi baldracche a basso costo e del buon whiskey.
Ma la cosa migliore dell’inferno era che potevi concederti una sana battuta di caccia.
Per me, l’inferno era un vero paradiso, e non l’avrei mai scambiato con nient’altro al mondo, nemmeno con ciò che si trovava sopra le nostre teste: il mondo terreno, o come lo chiamavo io, il mondo di mezzo.
Conoscevo il mondo di sopra.
Ci avevo vissuto i miei primi quarant’anni di vita e, nonostante me la fossi cavata piuttosto bene, non avevo alcuna intenzione di tornarci.
Me ne stavo bene qui, all’inferno.
Era diventato casa.
Conoscevo i posti, i dannati e i demoni che ci vivevano.
E, soprattutto, ero il prediletto del capo: Satana.
Non l’avrei mai abbandonato.
Raggiunsi finalmente il pontile del villaggio, sotto lo sguardo attento dei dannati presenti.
Sapevano bene qual era il mio mestiere, ed erano sempre preoccupati che fossi lì per uno di loro.
Di fronte a me scorreva il fiume Acheronte, che pochi chilometri più avanti si univa a un altro corso d’acqua, quello che mi avrebbe condotto a destinazione.
Mi guardai intorno, cercando un’imbarcazione per attraversare quelle acque scure e velenose, quando notai uno di quei dannati che mi fissava, in piedi accanto ad una barca.
Pensando fosse un traghettatore, mi avvicinai a lui con le mani appoggiate alle impugnature delle pistole.
«Serve un passaggio… cacciatore?» disse, quando mi trovai di fronte a lui.
Socchiusi gli occhi, lo fissai, poi rivolsi lo sguardo alla barca che ondeggiava dietro di lui, mossa dalla corrente del fiume.
«Con quella zattera puoi portarmi alla Foresta dei Suicidi?» domandai, indicando l’imbarcazione.
«Non è una zattera! E posso portarti ovunque! Fanno quaranta oboli… pagamento anticipato!» rispose, strofinandosi le mani e sfoderando quel suo squallido sorriso che mi faceva venir voglia di estrarre la pistola.
Rovistai nella tasca della giacca, dove di solito tenevo qualche moneta, e le tirai fuori per contarle davanti ai suoi occhi scuri, impazienti di metterci le mani sopra.
«Ne ho solo trentadue con me. Pazienza! Oggi mi farai uno sconto!» gli dissi, porgendogli le monete.
«Ora andiamo! Non ho tempo da perdere!» aggiunsi, salendo a bordo dell’imbarcazione, mentre lui si lamentava per il fatto che non avessi pagato quanto richiesto.
Rimase a fissarmi per alcuni istanti, stringendo le monete nella mano, mentre mi sistemavo sulla barca senza preoccuparmi troppo di lui.
Alla fine, le intascò e decise di salire a bordo, facendo ondeggiare nervosamente l’imbarcazione mentre scuoteva il capo.
Si diresse verso prua per sciogliere la corda che teneva la barca legata al pontile, evitando così che la corrente se la portasse via, poi prese un remo per allontanarla leggermente.
«Allora? Ci muoviamo o no?» sbottai, spazientito, ansioso di dare inizio a quella battuta di caccia che mi stava aspettando.
«Quanta fretta! Dammi un attimo!» rispose, mentre preparava i remi per condurre la barca verso il centro del fiume, dove le correnti ci avrebbero trasportato per il resto del viaggio.
Finalmente iniziò a muovere i legni, allontanando l’imbarcazione dal pontile, ed io mi adagiai sulla trave di legno su cui ero seduto, in attesa di raggiungere la mia destinazione.
La barca scivolava sul pelo delle acque gelide e oscure del fiume Acheronte, il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti, con il traghettatore posizionato a poppa, intento a manovrare il timone.
Intorno a noi, altre imbarcazioni navigavano lentamente, trasportando le anime dei dannati in attesa di essere condotte nei luoghi loro assegnati, dove avrebbero vissuto la dannazione eterna.
Quelli erano i dannati che non cercavano redenzione, che non provavano alcun pentimento per il male commesso durante la loro vita terrena.
A loro non era permesso vivere in villaggi come il mio, dove abitava anche il mio traghettatore, poiché quei luoghi erano riservati esclusivamente ai dannati che avevano intrapreso la via del pentimento.
Lasciai lo sguardo posarsi su di loro: occhi privi di espressione, la pelle sbiadita come una vecchia fotografia, e gli abiti che indossavano al momento della morte.
Continuai ad osservarli, finché non incrociai lo sguardo di un’anima: una donna anziana, con i capelli grigi raccolti dietro la nuca e un paio di occhialini da vista sul volto.
Indossava una vestaglia da notte che le scendeva fin sotto le ginocchia fragili e, a vederla così, non potei fare a meno di chiedermi quale sofferenza avesse inflitto per meritarsi l’inferno.
«Ecco! Cazzo!» esclamai, quando i dannati che le stavano davanti si scostarono, rivelando il suo petto: l’impugnatura di un coltello era conficcata nelle sue carni.
«Una cazzo di suicida! Ci vedremo presto» bisbigliai, sorridendo, ormai certo di dove sarebbe finita quella graziosa vecchietta.
«Qualcosa non va, cacciatore?» chiese il mio traghettatore da dietro le spalle.
«Niente che ti riguardi! Manca ancora molto?» risposi secco.
«Qualche ora… presto ci butteremo nello Stige, che ci condurrà alla tua destinazione» replicò con tutta tranquillità.
Avevo tempo, tutto il tempo per rilassarmi su quella barca, mentre mi godevo lo spettacolo di quelle anime dannate in viaggio verso l’inferno.
Si guardavano intorno, stupite dal paesaggio che stavano attraversando, ma allo stesso tempo intimorite e non faticavo a capirne il motivo.
Quel timore che si leggeva nei loro sguardi vuoti, in fondo era giustificato: stavano entrando in un luogo da cui non si tornava più indietro.
Le acque del fiume che stavamo percorrendo erano nere come la pece, mentre il cielo sopra di noi era coperto da nubi scure che si muovevano vorticosamente, squarciate a tratti da lampi e tuoni fragorosi.
Ai lati del fiume si estendevano foreste oscure, tetre, in parte avvolte da una coltre di nebbia che impediva allo sguardo di penetrare tra un albero e l’altro.
In lontananza si stagliavano possenti catene montuose, che si elevavano maestose verso le nubi, le cui spesse coltri oscuravano del tutto la vista del cielo.
Tra quei monti, si scorgevano vulcani in eruzione, che riversavano fiumi di lava incandescente: quella stessa lava che alimentava il Flegetonte, il fiume infuocato destinato a punire le anime dei dannati.
E come se non bastasse, di tanto in tanto si vedevano demoni volare da una parte all’altra, alcuni dei quali sorvegliavano dall’alto i nuovi arrivati.
Se non fossi stato abituato a quello scenario, ne sarei rimasto intimorito anch’io.
Anche se, a dire il vero, dovetti ammettere che la prima volta che vi misi piede ne rimasi stranamente affascinato.
Appena mi ritrovai davanti quel paesaggio estremo, puzzolente, popolato da demoni e anime dannate, provai un’attrazione tale da non riuscire più a ricordare il mondo terreno.
«Cazzo… è troppo bello questo posto!» bisbigliai, prima di stendermi meglio, incrociando i piedi per stare più comodo.
Dopo aver visto abbastanza di quei pezzenti a bordo delle imbarcazioni, abbassai leggermente il cappello per coprirmi gli occhi con la visiera, convinto che avrei potuto concedermi un po’ di riposo per il tempo restante del viaggio.
La barca era nelle mani di quel dannato in via di redenzione.
Non avevo nulla da fare, e qualche ora di riposo non poteva che farmi bene.
Incrociai le braccia sul petto e chiusi gli occhi, mentre l’imbarcazione oscillava sulle onde provocate dal passaggio delle altre, cullandomi e facendo ondeggiare leggermente la testa.