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Primo Capitolo
In un futuro non troppo lontano
Ho vissuto la mia infanzia con la mia famiglia su Europa, una delle lune che ruotano attorno a Giove, il pianeta più grande del sistema solare.
Essendo lontani dai pianeti centrali, dove si trovava la sede del governo e il cuore della civiltà, la vita non era affatto semplice.
Decenni prima, gli scienziati e le compagnie aerospaziali decisero di avviare il processo di terraformazione sui satelliti principali dei giganti gassosi del sistema solare.
Una volta terraformati, portarono dei coloni con capi d’allevamento, qualche attrezzo agricolo e materiali per costruire le prime case, abbandonandoli poi al loro destino.
Su quei mondi, i coloni erano costretti a vivere alla giornata, arrangiandosi come meglio potevano o, se erano fortunati, ad avere un lavoro sottopagato e privo di condizioni di sicurezza.
Alcuni, quelli più spavaldi, avviarono attività indirizzate a traffici illeciti, rapine e trasporto di fuggitivi, che permettevano loro di vivere.
Ma si trovarono a vivere gran parte della loro vita a nascondersi dagli uomini del governo e della flotta stellare, che pattugliavano quei mondi.
Mio padre era uno di quelli che avevano un pessimo lavoro, un pessimo stipendio e una pessima salute, ma almeno viveva nella legalità, non doveva nascondersi da niente e da nessuno, e non aveva alcun problema con la legge.
Lavorava nella miniera di metano, risorsa di cui quella luna è ricca, ed era costretto a turni assurdi e massacranti.
A volte non lo vedevo per giorni, per settimane.
Quando tornava a casa, era distrutto, dal lavoro e dalla vita che quella colonia gli aveva riservato.
Ma, in fondo, gli leggevo negli occhi che non aveva molte alternative e, nonostante tutto, accettava quella condizione.
Molti dei suoi colleghi, quando uscivano dalla miniera, andavano in quei locali poco raccomandabili ad ubriacarsi e a farsi coinvolgere in stupide risse.
Ma non lui; lui non era in quel modo, lui era migliore di quelle persone, lui era mio padre.
Uscito dalla miniera, correva a casa e si lasciava alle spalle tutto quello schifo, di cui non si azzardava a parlare neanche con mia madre.
Veniva da noi, la sua famiglia, e passava tutto il tempo che aveva a disposizione in casa, con la mamma e con me.
Non era un uomo di tante parole; anzi, riduceva molto le sue conversazioni senza dilungarsi troppo e andando dritto al sodo.
«Ricorda, figliolo… il lavoro che fai … che farai … non è quello che sei, è solo l’unico mezzo che hai per continuare a vivere in questo folle mondo» era solito dirmi.
Nelle sere d’estate, era solito portarmi in cima alla collina che sorgeva dietro la nostra casa.
Giunti in cima, avevamo un posticino tutto nostro sull’erba, lontano dagli alberi, dove passavamo intere nottate in silenzio, con il naso all’insù, ad osservare le stelle.
Era in quelle sere, sul tetto del mondo, che sognavo di viaggiare attraverso quelle stelle dove si immergeva il mio sguardo, fantasticando con la mente su quanti mondi inesplorati avrei potuto visitare e, magari, scoprire.
Restavamo su quella collina finché le prime luci del giorno comparivano per cancellare quei sogni, ricondurci alla realtà e interrompere quei momenti magici che trascorrevo con mio padre.
Erano quelle prime luci a darci il segnale che era arrivato il momento di tornare alle nostre vite, alla nostra casa.
Una di quelle sere, prima di sdraiarci a terra per iniziare a sognare, mio padre si avvicinò a me, si inginocchiò, appoggiò le sue mani sulle mie spalle e, guardandomi fisso negli occhi, pronunciò quelle parole che, a distanza di tanti anni, ancora porto con me nel mio cuore, nella mia anima.
«Nessuno sa cosa il destino abbia in serbo per te… neanche io che sono tuo padre… ma penso che sai cosa ti aspetta su questa luna… quindi, ti prego, anzi no, ti supplico… fai di tutto… fai anche l’impossibile… ma trovati un’astronave, degli amici fedeli e vai… vai tra le stelle e dimenticati questo posto!»
Udite quelle parole, risposi con un sorriso a quell’uomo che mi guardava negli occhi con fiducia e speranza.
Sapevo dove voleva arrivare, capivo fin troppo bene il significato delle sue parole e il motivo per cui mi portava su quella collina.
Quell’uomo, distrutto dalla sua vita stessa, mi diceva solamente che non doveva essere quella la strada da intraprendere, che avrei dovuto lottare per emergere da quel mondo e uscire, nello spazio, per crearmi un mio destino.
«Ma ricorda, figlio mio, quando avrai un’astronave, assicurati sempre che possa condurti ovunque tu voglia» concluse prima di iniziare ad immergerci in quell’oceano stellato che era il cielo sopra di noi.
Passarono diversi anni da quella sera, ma presi sul serio le parole di mio padre, così sul serio che mi ritrovai a bordo di una nave spaziale: la Liberty.
Una piccola nave da trasporto che avevo acquistato, insieme alla mia socia in affari, Sarah, da un rivenditore su Io.
Viaggiavamo per l’intero sistema solare, tenendoci a debita distanza dai pianeti centrali e dal governo, con il quale non avevamo un rapporto di amicizia.
Pur di restare in volo, accettavamo qualsiasi tipo di lavoro, da quelli legali, come il trasporto di passeggeri da una luna all’altra, a quelli che non venivano necessariamente considerati legali, ma venivano pagati più che bene.
Con me e Sarah viaggiavano due amici che avevamo incontrato durante i nostri viaggi.
C’era Ellen, una svitata che, a vederla, non le si dava un soldo di fiducia, ma era un vero genio in meccanica e riusciva a riparare i motori di una nave anche con del filo interdentale.
E poi c’era quel vecchio pazzo di Frank, una testa calda, ma la sua conoscenza delle armi veniva spesso utile.
Sarah era un’ottima pilota; aveva frequentato la scuola di volo, che non aveva potuto completare poiché, insomma, il suo istruttore non aveva accettato un banale pugno sul naso e un calcio nei cosiddetti gioielli di famiglia.
Infine c’ero io!
Per anni avevo lavorato su diverse navi commerciali che trasportavano le merci da un mondo all’altro.
Ogni volta venivo scaricato al primo porto spaziale poiché, per farla breve, non ero predisposto a prendere ordini e i vari comandanti che avevo incontrato non apprezzavano questa mia caratteristica.