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Primo Capitolo
Atto primo
Dovrebbero essere le sei del mattino.
Non lo dico perché sono già sveglio o perché ho visto l’ora sull’orologio.
Lo dico perché quella dannata sveglia ha iniziato a suonare da qualche minuto, con quel suo orrendo cicalino che echeggia per tutto il monolocale in cui vivo.
È ora di svegliarsi, secondo lei, ma per me è solo l’ora di tornare a odiare il mondo in cui vivo, riprendendo da dove avevo interrotto la sera prima.
Vorrei prendere quella dannata sveglia, scaraventarla contro il muro e tornarmene a dormire.
Ma non posso farlo; passerei dei guai e preferirei evitare.
Mi copro con le coperte e mi giro dall’altra parte.
Ma non serve a niente, quell’aggeggio infernale continua a suonare.
Vuole costringermi ad abbandonare il mondo dei sogni per immergermi in quello reale, che a volte non è così diverso dal peggiore degli incubi.
«Vai al diavolo!» le urlo contro mentre premo il pulsante per spegnere quella dannata sirena.
Completamente apatico, come accade ogni mattina, mi sollevo lentamente dal materasso e mi siedo sul bordo del letto con i piedi appoggiati a terra.
Ancora assonnato, mi guardo intorno per la stanza, mentre con la mano mi gratto la testa.
Lancio un’occhiata fuori dalla finestra e vedo che è ancora buio.
Si intravedono solo le luci a intermittenza di quelle fastidiose insegne pubblicitarie che mostrano continuamente quegli inutili prodotti accompagnati da stupidi slogan per attirare la nostra attenzione.
«Buongiorno, cittadino!» sento dire alle mie spalle.
Come al solito, al controllore non sfugge mai niente!
Ha visto che mi sono svegliato ed è già pronto a salutarmi con quel fastidioso modo di chiamarmi "cittadino".
Sono un umano, non un cittadino, vorrei gridargli!
Abbi rispetto per ciò che sono, non per ciò che pensi che sia.
Mi volto verso quella dannata videocamera e la fisso, turbato dalla sua presenza.
«Non è un buongiorno» dico quelle parole a denti stretti e sottovoce per non farmi sentire.
«Buongiorno, controllore» dico poi, con aria disturbata, per rispondere a quel macchinario come dovrei fare.
«Oggi è martedì, venti febbraio duemila cinquantasette. Ci sono otto gradi all’esterno ed è prevista pioggia tutto il giorno» dice quella voce dal suono metallico del controllore che è solito comunicare anche le informazioni meteo, come ogni mattina.
Prevista pioggia, sai che novità!
Sta piovendo da settimane, da mesi, anzi a volte ho come l’impressione che non abbia mai smesso e che non abbia mai iniziato.
Con molta fatica, mi alzo in piedi e vado in bagno.
Entro in quello stanzino di due metri per due e mi fermo di fronte allo specchio appeso al muro, sopra il lavandino.
Osservo l’immagine di quel tizio riflessa in quello specchio: capelli rasati, barba incolta, occhi spenti e tristi.
«Chi sei? Cosa vuoi? Cosa ci fai qui?» domando a quell’immagine.
Attendo alcuni istanti mantenendo lo sguardo su quel tale per avere una risposta che so di non poter ricevere.
Prendo lo spazzolino da denti e il dentifricio ancora incartati nella loro deliziosa confezione e cerco di dare un’immagine presentabile, secondo i loro standard, a quell’essere che viene riflesso dallo specchio.
Finito di radermi, lavo il viso con l’acqua fredda, sperando che possa togliere quel senso di disagio che vivo ogni mattino al risveglio e che porto con me per tutto il resto della giornata.
Concluso il solito rituale igienico mattutino, torno nel reparto notte del mio piccolo monolocale, concesso gentilmente dal governo, al quale devo anche pagare l’affitto mensile.
Vado a prendere i vestiti che mi stanno aspettando sopra una sedia che tengo vicina al letto.
Infilo pantaloni e camicia mentre sento lo sguardo vigile del controllore su di me.
Quella dannata macchina, con il suo occhio elettronico che segue ogni nostro passo, ogni istante, della nostra miserabile vita.
Ci controllano ovunque, anche in casa!
E poi ci dicono che finalmente siamo liberi.
Ma liberi da cosa?
Siamo trattati come prigionieri!
Chiusi in una vasta prigione senza sbarre e senza recinzioni che dobbiamo chiamare città, dove veniamo controllati da quelle stupide telecamere sparse ovunque.
Ed hanno anche il coraggio di dirci che siamo liberi!
È tutto così assurdo!
Sorvolo su quei dettagli, altrimenti rischio di arrabbiarmi e fare qualcosa di cui potrei pentirmi, e, finito di vestirmi, mi sposto verso il reparto giorno.
Un tavolo con un paio di sedie, un fornello e un frigorifero semi vuoto compongono la mia cucina.
Dal frigo prendo una confezione in plastica contenente la colazione dei campioni, come la chiamo io.
In quella confezione trovo un bicchiere, in plastica, con del succo d’arancia, una tazza di caffè istantaneo, ovviamente in plastica, un toast avvolto nella sua confezione, in plastica, e poi la compressa del pax da prendere ogni mattina dopo i pasti.
Inutile dire che c’è l’obbligo da parte del governo di prendere quella compressa, anch’essa avvolta in una deliziosa confezione in plastica bianca.
Il pax è un medicinale considerato rivoluzionario che ci obbligano a prendere dopo aver compiuto i cinque anni di età per il resto della nostra inutile vita.
Ogni giorno dobbiamo prenderla.
Quel dannato farmaco serve principalmente per inibire gli istinti violenti e l’aggressività presenti nell’uomo.
Inutile dire che, se un giorno non venisse presa, ti ritrovi gli agenti delle forze dell’ordine in casa e puoi rischiare anche l’arresto.
Comunque, il tutto viene offerto dalla Breakfast Plus, azienda leader nell’alimentazione.
Viene gestita dal governo, come tutte le altre aziende del mio mondo, ed ha il monopolio assoluto sulle colazioni di tutta la città; anche nei bar o nei centri commerciali trovi i loro prodotti.
Offerto, si fa per dire.
Tre volte al mese, in ogni casa, passa il fattorino dell’azienda.
Si presenta alla porta con il suo sorriso da ebete e ci lascia dieci confezioni di colazione, e si fa anche pagare bene l’azienda, senza escludere la mancia per il fattorino.
Finita la colazione, mantenendo lo sguardo fisso su quel dannato vassoio di plastica, getto tutta quella roba rimasta nello scarico automatizzato dei rifiuti.
Dopo aver lanciato un’occhiata verso la finestra, vado a prendere il giaccone e poi mi avvicino alla porta.
Come il rituale richiede, resto immobile di fronte a quella porta con la mano avvolta intorno alla sua maniglia e lo sguardo rivolto verso il nulla.
Come ogni mattina, cerco un valido motivo per uscire dal mio rifugio sicuro per immergermi in quel mondo che mi sta aspettando dietro quella porta.
Come ogni mattina, mi chiedo quale sia il senso di quella vita che conduco da anni senza alcuna soddisfazione personale, senza motivazione e senza una speranza che la situazione possa migliorare.
«Cittadino! Il lavoro ti aspetta!» è la voce del controllore a riportarmi alla realtà.
Mi volto verso quella macchina appesa alla mia parete e, senza dire niente, apro la porta per uscire dal mio appartamento in fretta, chiudendola dietro di me con rabbia.